Schizofrenia e creatività

 

 

GIOVANNI ROSSI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVI – 23 novembre 2019.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: AGGIORNAMENTO/DISCUSSIONE/ RECENSIONE]

 

Per oltre un secolo sulle attività creative del paziente schizofrenico sono stati versati i proverbiali fiumi di inchiostro, dal primo studio condotto da Max Simon nel 1876 alla trattazione esaustiva proposta a cento anni di distanza da Silvano Arieti[1], si possono riconoscere due costanti: l’attribuzione di un valore funzionale all’economia psichica del paziente e l’impiego del materiale da parte dello psichiatra per accedere a contenuti mentali ritenuti rilevanti per la comprensione dei processi psicopatologici. Nel nuovo millennio, al mutare dell’approccio clinico, che include come si ricordava di recente lo studio analitico dei processi cognitivi[2], gli esiti dell’esame dei prodotti della creatività e dell’ideazione dei pazienti psicotici sono mutati radicalmente.

In questo cambiamento, che per certi versi segna una rottura con una concezione più che con una consuetudine, a nostro avviso assumono particolare rilievo e interesse i modi e le ragioni delle differenze, che possono insegnarci molto sul rapporto fra realtà fenomenica del paziente e deformazioni indotte dagli schemi interpretativi adottati dalla cultura psichiatrica corrente.

Mi sembra opportuno rilevare che in psichiatria e in psicologia si dà per implicito il rapporto stretto, quasi di identificazione reciproca, tra arte e creatività: è questa una cosa che non appartiene alla realtà storica del pensiero filosofico, e non potrebbe essere altrimenti, in quanto la creatività è intesa come una facoltà dell’intelletto, per sua natura costante, mentre l’arte, quale prodotto della cultura, muta al mutare della sua concezione epocale. Inoltre, è opportuno sottolineare che l’influenza dell’approccio della scienza cognitiva allo studio del cervello ha spostato la focalizzazione dei ricercatori dall’esame degli effetti prodotti dall’atto creativo all’analisi dei processi cognitivi elementari all’origine dell’atto stesso.

In realtà, il connubio indissolubile fra arte e creatività, acquisito nelle consuetudini preriflessive del pensiero popolare, deriva dalle estetiche dell’idealismo romantico e si trova in Hegel e Shelling[3], poi ripreso da Benedetto Croce[4] e Giovanni Gentile[5], che concepivano l’arte come creazione, in contrapposizione polemica con il concetto di origine platonica dell’arte che imita la natura ed esprime idealità. È evidente che la concezione legata, più o meno consapevolmente, all’idealismo romantico abbia facilitato la considerazione del lavoro d’arte quale oggetto emancipato dalle intenzioni coscienti dell’autore, favorendone la considerazione psicoanalitica di luogo privilegiato per l’espressione dell’inconscio[6].

Prima di recensire uno studio che adotta il modello della “vulnerabilità condivisa”, presentato in questi giorni nell’anteprima elettronica della pubblicazione cartacea, ripercorriamo in sequenza cronologica gli studi di maggior rilievo, secondo la ricostruzione di Arieti, sulle attività creative dei pazienti schizofrenici.

Si ritiene che Max Simon sia stato il primo psichiatra (1876; 1888) a compiere uno studio analitico di disegni di persone affette da disturbi mentali. Simon, condizionato dai criteri nosografici e diagnostici dell’epoca, classificò i disegni osservati in cinque tipi principali di opere, ciascuno dei quali corrispondeva perfettamente a una sindrome psicopatologica. Per primo, notò somiglianze fra l’arte degli psicotici e quella dei primitivi, ossia autori che non avevano modelli da imitare fuorché il vero; così come fra i disegni di questi pazienti e quelli dei bambini, che non sono esperti nella lettura della realtà e non dispongono di destrezza manuale esercitata.

Nel 1880 furono pubblicati gli studi dello psichiatra italiano Cesare Lombroso, divenuto tristemente famoso per la sua arbitraria attribuzione a particolari tratti somatici del valore rivelatore di specifiche qualità psichiche, come il possedere una personalità criminale. Anche il Lombroso propose l’accostamento fra l’arte dei primitivi e i disegni dei pazienti psicotici, ma soprattutto tentò di interpretare i conflitti psichici degli autori dall’analisi dei loro lavori, e rilevò, in un’epoca pre-psicoanalitica, la presenza di un simbolismo sessuale.

Fritz Mohr non si limitò all’osservazione della produzione spontanea, ma escogitò dei test di disegno che impiegò come ausili diagnostici (1906). Tentò di rintracciare una sorta di codice inconscio nelle rappresentazioni grafiche: nei disegni di pazienti schizofrenici catatonici ritenne di aver riconosciuto elementi indicativi di impedimento all’espressione della volontà.

Nel 1922, quando ormai in Europa i principi e il metodo della psicoanalisi freudiana erano conosciuti anche oltre la ristretta cerchia dei medici psichiatri, Hanz Prinzhorn classificò tutti gli studi condotti fino al quel momento su disegni e dipinti di pazienti psicotici, ripartendoli in tre categorie metodologiche: 1) approccio psichiatrico; 2) approccio folkloristico; 3) approccio psicoanalitico. Il contributo di Prinzhorn è interessante perché prende le distanze da tutti i contemporanei e, affermando che i lavori artistici dei malati di mente dovevano essere intesi quale espressione dell’intera personalità, nega ai tre approcci a quel tempo impiegati il valore di metodi di studio dei processi artistici. L’unico approccio valido per giudicare disegni e dipinti è, secondo lui, quello estetico, anche nel caso di opere realizzate da persone sofferenti di disturbi psichici. Il metodo psicoanalitico, secondo Prinzhorn, sebbene possa essere utile per far luce sui processi inconsci e particolarmente sui conflitti del paziente, ha ben poco valore per lo studio della creatività nel cervello sano o ammalato.

In quel periodo si pubblicarono opere ritenute importanti sulla creatività psicotica, ma furono probabilmente sopravvalutate per la fama dei loro autori (Schilder, 1918; Morgenthaler, 1922; Pfeizer, 1925), perché non sembrano aggiungere molto a quanto, anche più dettagliatamente, era stato esposto nelle monografie dei contemporanei.

Delgado (1922), sotto l’influenza delle teorie psicoanalitiche, considerò il materiale artistico prodotto dai pazienti schizofrenici come un’espressione di istanze inconsce estremamente ricca di simbolismi sessuali, che riteneva utili alla comprensione psicologica di un tipo di paziente, quale è lo psicotico, per definizione poco accessibile all’analisi psicologica mediante le tecniche dell’esame ordinario basato sull’intervista e il colloquio. A conclusioni opposte giunse Pfister (1923) che criticò il lavoro di Delgado, affermando che la presenza di contenuti sessuali nei disegni degli psicotici è del tutto eccezionale.

Il primo studioso americano che fornì dettagliate interpretazioni della figurazione prodotta da pazienti con diagnosi di psicosi fu Nolan D. C. Lewis (1925, 1928), che adoperò il paradigma freudiano in una chiave personale per conferire valori di senso latente o criptico alle forme rappresentate. Lewis attribuì notevole importanza al desiderio di morte da parte dei pazienti, a proposito del quale dice che è “camuffato in modo così abile che il soggetto stesso rimane inconsapevole della sua esistenza”. Rilevò poi in pazienti psicotici di entrambi i sessi, di ogni età e nazionalità la presenza di alcuni temi figurativi costanti e dominanti: il padre o l’analista, o una sintesi fra queste due figure, l’occhio malvagio, l’occhio di Dio che “tutto vede”. È interessante notare che la presenza di occhi isolati dal corpo e coscientemente considerati dall’autore quale simbolo di un controllo o di un’azione benefica o malefica universale, sono stati rinvenuti nei disegni degli psicotici dallo stesso Silvano Arieti e, in tempi recenti, da molti psichiatri, anche tra i membri della nostra società scientifica.

L’osservazione di Karpov (1926), della comparsa di sintomi nelle espressioni artistiche prima che nelle manifestazioni clinico-comportamentali, accreditò il metodo di chiedere ai pazienti l’esecuzione di compiti grafici, di un valore significativo per la diagnosi precoce. Vinchon trovò conferma della comparsa, nelle rappresentazioni esaminate, di segni del disturbo psicotico prima che fossero clinicamente evidenti.

Henry Ey[7] (1948) classificò le espressioni artistiche del malato mentale in quattro categorie: 1) forme estetiche senza rapporto apparente con il disturbo psichico; 2) forme estetiche specificamente modificate dalla malattia; 3) forme estetiche di proiezione patologica; 4) forme estetiche immanenti nei contenuti psichici deliranti.

Due anni dopo ebbe una notevole risonanza il lavoro compiuto con due sole ragazze schizofreniche da Margaret Naumburg (1950): l’impiego dell’espressione figurativa a scopo psicoterapeutico le aveva consentito di dimostrare che le forme simboliche tracciate dalle pazienti contenevano non solo la storia emotiva della loro vita, con i loro conflitti e le loro sofferenze, ma anche le soluzioni dei principali problemi. La Naumburg riferiva che, nel corso della psicoterapia, le pazienti abbandonarono gradualmente le stereotipie di moto e le forme arcaiche di comunicazione, assumendo una crescente libertà di espressione. La sua narrazione, avvincente e convincente, caratterizzata anche da un “lieto fine” temporaneo – non verificato da un follow-up a distanza – indusse molti a condividere la tesi che la terapia artistica fosse il miglior modo per accrescere nei pazienti la coscienza dei propri conflitti e la capacità di rappresentarli e comunicarli verbalmente.

Il valore di questo studio è grandemente ridimensionato ai nostri occhi, non solo perché riguarda due soli casi e i benefici – verosimilmente temporanei – ottenuti dalla terapia artistica potrebbero essere ottenuti con altri mezzi in grado di accrescere attenzione autodiretta e insight, ma soprattutto perché il metodo adottato è di fatto una “realizzazione creativa” ad hoc, ispirata alla teoria del conflitto intrapsichico quale causa della schizofrenia. Tale concezione ha portato la Naumburg a cercare “conflitti eziologici” nelle manifestazioni emozionali e vedere una sorta di “soluzione del conflitto” nella capacità di non abbandonarsi al funzionamento psicotico, imparare a prenderne le distanze e impegnarsi per migliorare la qualità della comunicazione, grazie all’interazione gratificante con la psicoterapeuta.

Il contributo di Francis Reitman (1951, 1954) è particolarmente interessante perché, in controtendenza con l’opinione unanime della somiglianza fra produzione schizofrenica e arte contemporanea, che aveva indotto molti artisti o aspiranti tali a mimare la psicosi per attrarre l’attenzione dei critici, sostenne e dimostrò che le somiglianze sono solo superficiali. Le peculiarità dei lavori degli schizofrenici e i caratteri specifici e riconoscibili dipendevano – secondo Reitman – principalmente dalle anomalie cognitive dei pazienti. Un’opinione che sembra quella di uno psichiatra di oggi, consapevole degli stretti rapporti fra processi cognitivi e creativi. Reitman spiegava che, al di là di quanto dichiarato dagli stessi artisti seguaci delle tendenze allora all’avanguardia, era possibile riconoscere una riorganizzazione deliberata della realtà in strutture o relazioni di forma e colore complesse, generalmente sostenute da tinte ricercate e studiate, anche quando apparentemente gettate sulla tela in modo istintivo, caotico e improvviso. Al contrario, il lavoro degli schizofrenici denunciava un’intrinseca povertà di modi e mezzi, con tinte spesso elementari, rivelando mancanza di ideazione strutturata, disintegrazione delle relazioni percettive e dissoluzione dei concetti. Un elemento fondamentale dell’analisi di Reitman è l’origine delle peculiarità dell’arte psicotica da disturbi dei processi cognitivi, a loro volta originati dalle cause del disturbo mentale stesso.

Il valore delle osservazioni e deduzioni di Francis Reitman si apprezza maggiormente se si considera che nel 1950, in occasione del Primo Congresso Mondiale di Psichiatria, si tenne a Parigi l’Esposizione Internazionale di Arte Psicopatologica, che fu occasione per sublimare nella cultura ufficiale, con grande risonanza internazionale, l’espressione artistica delle persone affette da disturbi mentali, accompagnata dall’interpretazione didascalica degli intellettuali più autorevoli del tempo, che la proponevano come l’ultima corrente nell’arte, contraddistinta da un valore di verità e purezza che la collocava su un piano superiore alla produzione artistica che mirava a stime di valore commerciale. In realtà, in quella grande operazione, si poteva leggere anche la partecipazione di soggetti interessati a una strumentalizzazione della sofferenza psicotica a sostegno di tesi ideologiche propugnate nel mondo dell’arte. Chi sia interessato a questa mostra e alla cultura che la produsse potrà trovarne un resoconto nel volume pubblicato da Volmat nel 1955, che contiene la riproduzione di 169 opere di autori affetti da disturbi mentali, e propone una rassegna esaustiva del pensiero dell’epoca al riguardo[8].

Infine, prima di considerare brevemente il contributo di Silvano Arieti, ricordo il rifiuto di Dax (1953) di interpretare il ricorrere dell’occhio nei disegni degli schizofrenici secondo il simbolismo corrente che lo riportava al controllo della coscienza sul soggetto, collegata a sensi di colpa, alla sorveglianza del soggetto sul mondo, alla vigilanza dell’Ente Supremo sul mondo, e così via, ritenendo di poterlo spiegare secondo un modello arcaico di simbolizzazione che avrebbe accomunato gli psicotici agli antichi Egizi. Nell’antico Egitto la rappresentazione di un occhio avulso dal corpo aveva 5 significati simbolici principali: 1) occhio del sole o della luna; 2) occhio sacro; 3) occhio del sacrificio; 4) occhio dell’immortalità; 5) occhio del male.

Silvano Arieti apre il capitolo dedicato alle attività creative dei pazienti schizofrenici, nell’Interpretazione della Schizofrenia, esercitando la sua vena poetica per ricordare che lo stato mentale imposto dalla patologia psichica è una condizione di sofferenza umana: “Quando il dolore è così intenso da non avere più accesso al livello della coscienza, quando i pensieri sono così dispersi da non essere più comprensibili ai propri simili, quando i contatti più vitali col mondo sono recisi, neppure allora lo spirito dell’uomo soccombe e il bisogno di creare può persistere. La ricerca, l’invocazione, l’angoscia, la ribellione, il desiderio possono essere tutti presenti ed essere riconosciuti nella caligine della tempesta emotiva del paziente schizofrenico e nello sgretolarsi della sua struttura cognitiva”[9].

Oltre all’analisi critica degli studi condotti in precedenza, che consente di distinguere nell’arte dei pazienti schizofrenici quanto sia da attribuire alla cultura del paziente e dello psichiatra e quanto sia realmente dovuto alla malattia, il contributo principale di Silvano Arieti consiste nel riconoscimento di tratti della cognizione psicotica, caratteristici del pensiero verbale, anche nel processo creativo. In particolare, rileva l’attuazione del principio di von Domarus, presente nel pensiero paleologico e consistente nel dedurre l’identità di due soggetti dall’identità dei predicati: uno psicotico citato dal Bleuler spiegava di essere la Svizzera perché questa nazione, come lui, amava la libertà; una paziente di Arieti affermava: “La Vergine Maria era vergine. Io sono vergine, dunque sono la Vergine Maria”. Un’altra paziente identificava un altro uomo con suo marito, trascurando tutte le differenze somatiche e di altro genere, e giustificando la sua certezza con il fatto che entrambi suonavano la chitarra. Questa facilità di identificare fra loro soggetti del tutto diversi accomunati da una proprietà o da un’azione materiale, o talvolta metaforica, consente agli psicotici di creare figure simboliche multisignificative, mediante fusione o condensazione.

Un esempio straordinario di questo meccanismo, citato da Arieti, è costituito da uno storico caso studiato tanti anni prima da Bobon e Maccagnani (1962): il paziente, partendo da sei figure, con le quali riempie i sei riquadri di un test grafico, e dai loro nomi, realizza delle fusioni progressive, prima a due a due, poi sempre più complesse, fino a disegnare un’unica figura contenente tutte quelle iniziali. Ogni disegno era contraddistinto dal nome e, dunque, tutte le nuove figure create per fusione, da neologismi ottenuti dall’unione dei nomi iniziali[10].

Più in generale, Arieti contesta la nozione comune negli anni Settanta di una maggiore tendenza a disegnare e dipingere degli psicotici rispetto alle persone non affette e, citando statistiche di Volmat, riferisce che solo il 29% dei pazienti psichiatrici dipinge spontaneamente. Sostiene, poi, che l’elevata concentrazione di contenuti sessuali nei lavori degli schizofrenici non è un dato reale, lasciando intendere che potrebbe originare da una bias interpretativa. In proposito, afferma: “A mio giudizio, però, l’attribuzione allo schizofrenico di una motivazione primitiva, infantile o puramente sessuale è un banale errore. Mentre l’espressione sessuale ha raggiunto recentemente un grado di frequenza senza precedenti nell’arte visiva degli individui normali nella cultura occidentale, l’arte schizofrenica sembra proporsi sempre più obiettivi diversi. Sarebbe però altrettanto erroneo affermare che l’arte schizofrenica ignori il sesso. Ciò che conta non è soltanto la natura specifica della motivazione ma il modo in cui la motivazione è realizzata artisticamente e in cui la patologia si manifesta attraverso la realizzazione”[11].

Il suo giudizio sull’arte degli psicotici diagnosticati di schizofrenia risente molto della concezione psicoanalitica della mente, con riferimenti obbligati ai processi primario e secondario, ma è attento allo stile cognitivo: “Da un lato, la regressione fa riemergere la cognizione tipica del processo primario assieme a una rinnovata disponibilità di forme non abituali. Dall’altro, abbiamo il riaccendersi di fantasie e di impulsi motivazionali, mai realizzati nella vita, i quali chiedono ora di essere realizzati sulla carta e sulla tela, così come nella maggioranza dei pazienti trovano realizzazione in deliri e allucinazioni”[12].

Per passare alla considerazione della ricerca più recente, seguiamo Degmecic, dell’Università di Osijek (Croazia), che lo scorso anno ha pubblicato una rassegna molto dettagliata degli studi condotti negli ultimi anni sulla creatività degli schizofrenici.

Degmecic riporta la definizione di creatività[13] che costituisce il riferimento per la maggior parte dei ricercatori in questo campo: un’idea o un prodotto che è sia nuovo o originale che utile o adattativo. Come si può facilmente notare, si tratta di una formulazione volutamente generica e inclusiva, in grado di comprendere uno spettro di azioni mentali e materiali notevolmente ampio, che può andare dalla rappresentazione isomorfa di una forma concettuale elementare, fino all’invenzione di un nuovo strumento elettronico per misurare fenomeni non ancora studiati; dall’invenzione di una nuova posata, allo sviluppo di una modalità comunicativa gratificante in un contesto frustrante. Si nota poi la definitiva rottura del rapporto privilegiato con la realizzazione artistica, ossia con il prodotto che può riflettere con maggiore immediatezza l’immaginazione di una persona e rendere la sua facilità ad esprimersi secondo canoni estetici, di gusto formale o di semplice aderenza alle virtù morfologiche del vero[14].

Degmecic osserva che, a dispetto del valore della creatività al livello personale e sociale, la tendenza delle persone creative a soffrire di ciò che oggi chiamiamo disturbi mentali è stata rilevata da millenni. Evidenze empiriche di un rapporto tra creatività e psicopatologia sono cominciate ad emergere verso la metà del ventesimo secolo. Sono numerosi gli studi che hanno indagato connessioni fra processo creativo e psicopatologia, ed altrettanto numerosi quelli che hanno analizzato i rapporti tra schizofrenia e creatività. Tuttavia, non sono emersi da questa ricerca elementi di assoluto rilievo o da notare perché in contrasto con le nozioni acquisite negli altri campi di studio dei rapporti fra basi neurofunzionali dei processi cognitivi e comportamento.

Degmecic sottolinea che esercitare le facoltà creative può essere terapeutico per psicotici e pazienti sofferenti di altri disturbi mentali, e che le terapie basate su arti creative correttamente esercitate in contesti regolamentati, clinici in generale e psichiatrici in particolare, hanno fatto registrare effetti notevolmente positivi per la salute dei pazienti[15].

Il team spagnolo guidato da Sampedro, nello studio che qui di seguito si recensisce, affronta in maniera diretta un problema di estremo interesse: se la creatività dipende dalla cognizione, e la cognizione è invalidata dalla fisiopatologia schizofrenica, le capacità creative di questi pazienti dovrebbero essere compromesse. Perché allora per decenni si è parlato di creatività schizofrenica?[16]

I ricercatori hanno preso le mosse da quanto suggerito dallo stesso Shared Vulnerability Model (SVM) o “modello della vulnerabilità condivisa”, ossia che il danno delle funzioni esecutive dovrebbe portare progressivamente a peggiorare le prestazioni creative delle persone affette da psicosi schizofreniche. Un altro importante aspetto che hanno preso in considerazione riguarda quella facoltà di comprendere, leggere, intuire e dedurre gli stati d’animo e i contenuti mentali dei propri simili, che convenzionalmente si chiama “possesso di una teoria della mente”: in passato alcuni studi hanno messo in rapporto le capacità intellettive ed empatiche riassunte nel concetto di teoria della mente con le capacità creative delle persone sane. Ma, hanno osservato Sampedro e colleghi, non si sa molto sulla teoria della mente negli schizofrenici. Per questo, lo scopo del loro studio è stato analizzare le differenze in creatività tra pazienti schizofrenici, comparandole con quelle di soggetti di controllo, e esplorare il ruolo potenziale delle funzioni esecutive e della teoria della mente quali componenti funzionali mediatrici di questo rapporto.

In termini metodologici, lo studio è stato condotto su un campione di 90 volontari, 45 affetti da psicosi schizofrenica e 45 controlli apparentemente sani e privi di disturbi neurologici e psichiatrici, tutti sottoposti a valutazione neuropsicologica mediante test tarati che hanno particolarmente analizzato le funzioni esecutive (flessibilità cognitiva e memoria di funzionamento, ossia working memory), la teoria della mente, la creatività verbale e figurativa.

(Sampedro A., et al. The mediating role of cognition and social cognition on creativity among patients with schizophrenia and healthy control: revisiting the Shared Vulnerability Model. Psychiatry and Clinical Neurosciences – Epub ahead of print doi: 10.1111/pcn.12954, Nov. 9, 2019).

La provenienza degli autori è la seguente: Department of Methods and Experimental Psychology, Faculty of Psychology and Education, University of Deusto, Bilbao (Spagna); Refractory Psychosis Unit, Psychiatric Hospital of Alava, Vitoria (Spagna); Department of Neuroscience, Psychiatry Section, School of Medicine, University of the Basque Country (UPV/EHU), Vizcya (Spagna); Department of Physical Education and Sport, University of the Basque Country (UPV/EHU), Vitoria-Gasteiz (Spagna).

I risultati, come gli autori dello studio si aspettavano, hanno fatto registrare nei pazienti schizofrenici, rispetto ai controlli, punteggi più bassi nella creatività, nella flessibilità cognitiva, nella working memory e nella teoria della mente.

La path analysis ha mostrato che la teoria della mente mediava il rapporto fra ciascuno dei due gruppi, ossia schizofrenici e sani, da un canto, con la creatività figurale e la creatività verbale, dall’altro. Poi, la working memory mediava il rapporto tra il gruppo e la creatività figurale, mentre è risultata solo marginalmente significativa per la creatività verbale. Infine, la flessibilità cognitiva mediava tra il gruppo e la creatività figurale.

In conclusione, i risultati attestano un basso grado di creatività negli schizofrenici e suggeriscono che le prestazioni scadenti siano almeno in parte dovute ad un deficit di funzioni esecutive e teoria della mente. La partecipazione della teoria della mente, ossia di quelle risorse funzionali che rendono possibili le prestazioni di intesa con gli altri e consentono empatia, apre un nuovo campo di ricerca quale possibile fattore di rischio nel modello SVM.

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Giovanna Rezzoni per la collaborazione e invita alla lettura delle recensioni di studi di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanni Rossi

BM&L-23 novembre 2019

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Silvano Arieti, Interpretazione della Schizofrenia, in 2 voll., I vol. cap. 20, pp. 478-510, Feltrinelli, Milano 1978.

[2] Note e Notizie 16-11-19 Trattamento cognitivo della schizofrenia.

[3] Giovanni Guanti, Creatività, ne “Gli Strumenti del Sapere Contemporaneo”, Grande Dizionario Enciclopedico, Vol. II: I Concetti, p. 163, UTET, Torino 1985.

[4] Benedetto Croce, Nuovi Saggi di Estetica (1918), Laterza, Bari 1958.

[5] Giovanni Gentile, La filosofia dell’arte, Sansoni, Firenze 1931.

[6] Giuseppe Perrella, Appunti su Arte e Cervello, p. 3, BM&L-Italia, Firenze 2016.

[7] Henri Ey (1900-1977), psichiatra francese celebre per il Manuale di Psichiatria che porta il suo nome ed è stato pubblicato, a cura di Paul Bernard e Charles Brisset, a lungo dopo la sua morte. Autore di oltre 500 scritti, con il suo organodinamismo, teoria che cercava una sintesi fra conoscenze biologiche e psicoanalitiche, ha notevolmente influenzato anche la cultura psichiatrica italiana.

[8] Volmat R., L’art psychopatologique, Presses Universitaires, Paris 1955.

[9] Silvano Arieti, Interpretazione della Schizofrenia, in 2 voll., I vol. cap. 20, p. 478, Feltrinelli, Milano 1978.

[10] Nei seminari didattici del nostro presidente veniva presentata una copia della straordinaria tavola creata da questo paziente di lingua francese. I disegni iniziali erano un pesce, una ragazza, un succhiotto, un bruco, una mucca e una locomotiva (poisson, pucelle, sucon, chenille, vache, machine); così la condensazione della ragazza col pesce – una sorta di sirena – è definita poicelle; la fusione col succhiotto, sucelle; l’insieme di bruco e succhiotto, sucenille; l’unione della mucca con la locomotiva, mache; e così via. L’ultima onirica e impensabile fusione di tutte le figure è denominata poisucevamachenille.

[11] Silvano Arieti, Interpretazione della Schizofrenia, in 2 voll., I vol. cap. 20, pp. 481-482, Feltrinelli, Milano 1978.

[12] Silvano Arieti, op. cit., p. 481.

[13] Abbiamo qui riportato la traduzione letterale della definizione ufficialmente adottata, così come si è affermata nell’uso corrente, ma il termine creativity andrebbe sostituito con creation, ossia creazione. Infatti, “un’idea o un prodotto” nuovi rappresentano una creazione, e non si identificano con il processo che li ha generati (creatività) e che può generare tanti altri elementi differenti. L’errore non è puramente linguistico, ma logico. La creazione di un oggetto rientra nel denotativo di quella particolare cosa realizzata; la creatività riguarda il connotativo di una categoria di processi mentali dai quali origina una gamma potenzialmente illimitata di elementi differenti.

[14] Si ricorda che le “virtù morfologiche del vero”, intese soprattutto come bellezze naturali, sono universalmente apprezzate perché il cervello si è evoluto, nella filogenesi, memorizzando percezioni della realtà.

[15] Degmecic D., Schizophrenia and creativity. Psychiatria Danubina 30 (Suppl 4): 224-227, 2018.

[16] In proposito, mi torna in mente una considerazione fatta da Giuseppe Perrella a un convegno in cui François Boller, per introdurre il tema dei rapporti fra creatività e neurodegenerazione, fece ascoltare all’uditorio la lunga apertura del Bolero di Ravel, sottolineando che la ripetitività, che contribuisce a creare quella straordinaria atmosfera che ha decretato il successo della composizione, non era altro che la conseguenza della fatica che faceva il cervello dell’autore, ormai in una fase avanzata di malattia, a produrre nuove idee musicali e a trattenere nella memoria di funzionamento l’informazione necessaria all’elaborazione creativa. Il nostro presidente sottolineava come i criteri di giudizio estetico dell’arte, basandosi sul risultato, e spesso sul suo potere evocativo, non sono significativi per giudicare il valore e la qualità dei processi cerebrali che li hanno prodotti. E poi osservava che – nel caso di Ravel e di altri artisti che hanno prodotto capolavori quando erano ormai anziani e verosimilmente sofferenti di difetti cognitivi – le loro capacità erano tali da riuscire ad esprimersi anche in presenza di un deficit della base neurobiologica normalmente necessaria.